I don't know what to do, I'm going to lose my mind​
L’ambiente si presenta vuoto: giunti a destinazione in orario di garanzia, il sospetto di dover passare del tempo ad attendere l’inizio era messo ampliamente in aspettativa. Il vento freddo e costante tra gli alberi che frusciavano, faceva capolino in giornate di allerta meteo che hanno visto esondazioni e settimane ininterrotte di pioggia, ed era ben accetto.
Si sentiva il calore che di li a poco avremmo avuto in quella sottile percorrenza tra la mente, l’udito e il cuore, tra la brutale forza del suono e l’estasi romantica della luce in ritmiche connesse.
La gente occupava in osmotica e rada diffusione l’area del parterre, e subito si nota fumo ovunque, in abbondanza, a mascherare i contorni di un palazzetto che doveva diventare astratto, nebuloso, senz’altro con l’intenzione di gestire la volumetria delle luci con il ruolo di co-protagonista, parte inestimabile dello spettacolo.
Attesa che si consuma tra la solita birra, la solita chiacchiera, la solita sbirciata ai personaggi che ti stanno accanto, vicini ed attaccati al palco con noi, che difficilmente si sarebbero mossi di li, certi che sarebbero stati nostri compagni di viaggio.
Progressivamente le luci si abbassano di intensità, aumentano le sfumature ed i colori si confondono, la musica del DJ spalla (ma chi era poi? Non si è capito. Mi spiace per lui ma veramente pessimo, come a voler rimarcare il dramma del confronto) accompagna non senza noia una lunga attesa, l’avvento dell’oscurità interrotta da luci di cui ormai non si comprendeva quasi il punto di emissione, movimenti strani dietro al palco.
Tra mezz’ora inizierà. Ancora dieci minuti. Ma quando inizia. Siamo pronti. Siamo stufi. Stasera suona lui, via.
Ci siamo.
I motori freddi e la noia vengono spazzati come un cumulo di foglie secche al passaggio di una Lamborghini a 200 all’ora, ma con l’acceleratore a pelo, in marcia di chi dimostra di averne ancora almeno altrettanto da sfogare sull’asfalto.
La potenza dirompente apre le danze con figure umane in wireframe che nella danza ipnotizzano la Modigliani Arena, esplosa in una vera e propria bolgia. Bolgia di danza e amore, rispetto e arte, non solo per l’eccellente servizio di sicurezza ma per il vero e proprio mood che si respirava. Il pubblico dei Chemical Brothers non può non essere un pubblico che non sa cosa siano le esplosioni di gioia, la dinamica della gestione della potenza, la complessità della composizione. E’ un pubblico che sa divampare e che sa essere raffinato nel godimento donato solo da chi ha lo scettro in mano dell’elettronica degli ultimi 20 anni. E non possono mancare, tra giganteschi palloni lanciati nel pubblico, robot spara laser, piramidi di luce: abbracci, salti, voli, urla e sorrisi di chi apre la propria anima all’estasi musicale.
Non definiamo il repertorio, cosa hanno suonato e cosa no: hanno composto un cammino trasversale da Exit Planet Dust a No Geography, senza soluzione di continuità, mescolando qualsiasi cosa con l’estro percepito solo da chi era presente lì in quell’istante, appreso in anni, lustri o decenni di godimento pazzesco lanciato da questo duo di sovraumani compositori, che nonostante siano sul pezzo da veramente molto tempo hanno dato devastante dimostrazione di allegria, controllo, capacità e follia, di chi non sbava nulla nemmeno se vuole perché è su questo mondo per fare quello: portarci a fare un giro tra le stelle.
Poteva durare l’infinito, saremmo andati avanti al consumo di qualsiasi energia ci fosse rimasta in corpo a muoverci e guardando movimenti lenti dell’acqua, fusioni di profili umani intrecciarsi, icone religiose medievali che sembravano create per danzare con noi li, a Livorno, a quasi 2020 compiuto, e a portarci dietro questa esperienza per tanti anni della nostra esistenza.
(I don't know what to do, I'm going to lose my mind)
Grazie Chemical. Grazie.